Il film è ispirato all'omonimo romanzo del 1963 di Ferenc Sánta, siamo a Budapest nell'Ungheria del 1944, dominata dal Partito delle Croci Frecciate, un gruppo di amici composto da Gyurica (Lajos Öze), un cinico orologiaio, Király (László Márkus), un venditore ambulante di libri e Kovacs (Sándor Horváth), un umile falegname, si riuniscono ogni sera in un tavolo nel bar di Bèla (Ferenc Bencze), un uomo rude che sa il fatto suo, per scaldarsi dalle oscure giornate invernali. Király rivela a tutti di essersi procurato della carne di vitello vendendo dell'arte romanica e alcune opere di Hieronymus Bosch, proprio di quest'ultimo si intrufolano, sinistramente nel montaggio del film, le sue immagini oniriche e demoniache mentre gli amici conversano tra loro scherzando sulla misera della loro vita. Poco dopo nel bar fa misteriosamente irruzione Károly Keszei (István Dégi), un uomo zoppo che è tornato dal fronte, il gruppetto lo invita ad unirsi al loro tavolo. L'uomo rivela di essere un fotografo artistico e specula sul ruolo della sua professione, qui la conversazione prende una strada sempre più filosofica fintanto Gyurica pone una domanda piuttosto strana al gruppo. Li chiede di immaginare di morire a breve e di avere la possibilità di rinascere, ma di essere obbligati a scegliere una delle due seguenti vite: quella dello schiavo Gyugyu che subisce supplizi e torture di ogni sorta, o quella del suo padrone Tomóceusz Katatiki che si macchia di crimini efferati senza provare alcun rimorso per tutta la vita. L'inquietante domanda scuoterà tutti, insinuandosi nella loro coscienza per tutta la notte.
Costantemente pervaso di un'atmosfera tetra e claustrofobica, dove la stessa macchina da presa rimane imprigionata negli interni guardando con timore gli esterni e dipinto da una fotografia livida illuminata pallidamente da lampadine, nulla di queste suggestive ed efficaci scelte stilistiche può prepararci al brutale finale. Se Novecento, come affermò Bernardo Bertolucci, è un film psicologico sul fascismo, allora il film di Zoltán Fábri è un manuale di psicologia sul fascismo. Lo sguardo di Fábri racconta la violenza oltre il sangue, le percosse, le esecuzioni e i particolari macabri dei film di guerra a cui siamo abituati, lo fa scrutando all'interno dell'oscurità umana, restituendoci il ritratto psicologico di una piccola borghesia schiacciata dalla ferocia del totalitarismo. È il grosso prezzo da pagare per quella stessa classe che ingenuamente ha tentato di esorcizzarlo con la sua morale cristiana, ad addomesticarlo con la pretesa di qualche compromesso in denaro e a diluirlo nell'illusione che impersonificando il ruolo dello schiavo quando è più conveniente tutto può diventare sopportabile. Ma non si può sfuggire all'orrore e alla violenza del potere e non ci si può aspettare di rimanere illesi dal fascismo, Fábri questo lo sa bene e lo rappresenta degnamente, con una tecnica altrettanto eccezionale nella pianificazione degli spazi delle inquadrature, nei decisi movimenti di macchina e nella tesissima direzione degli attori. Il quinto sigillo è un film durissimo, uno dei migliori del cinema ungherese e, mi permetto di dire, anche di tutta la storia del cinema. Il titolo è un chiaro e provocatorio riferimento all'Apocalisse di Giovanni, nel testo biblico si fa riferimento alle anime sacrificate in attesa della giustizia divina, nel contesto del film il senso sacro del sacrificio viene alimentato dallo Stato fascista. Non è la prima volta che un film sulla seconda guerra mondiale viene intitolato con una citazione dell'Apocalisse, è successo più tardi anche con Va' e Vedi, il capolavoro di Elem Klimov.
Il film è rimasto inedito in Italia, ma può essere facilmente recuperato su internet. Sono felice di comunicarvi che ho curato la traduzione dei sottotitoli in italiano, che potete scaricare qui.
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