• «Non mi importa se passeremo alla storia come barbari» non solo rappresenta la piena maturità artistica di Radu Jude, ma è anche uno dei più grandi film del XXI Secolo...
  • Il film di Peter Watkins è la risposta cinematografica alla trappola della "monoforma", prestandosi ad essere uno dei film-manifesto più rivoluzionari della storia del cinema...
  • Cosa è più importante? La vita o le idee? Il corpo o l'anima? Il visibile o l'invisibile? Questo è quello che si chiede insistentemente la regista sovietica Larisa Shepitko...
  • È d'obbligo la sua visione prima di scomparire da questo mondo, ma soprattutto prima di continuare a leggere questo blog che porta con tanto onore il suo nome.

giovedì 20 novembre 2025

Mr Nobody Against Putin (2025)

Nel 2022, con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, qualcosa si incrina definitivamente nelle scuole russe. Il sistema educativo viene rimodellato dal Cremlino, trasformato in un prolungamento della mobilitazione militare, e le aule diventano uno degli strumenti più aggressivi della propaganda, pensata per militarizzare il paese e preparare soldati fin dall’infanzia. È dentro questo nuovo scenario educativo che si inserisce Mr Nobody Against Putin, un documentario schietto, provocatorio e toccante, la cui forza è nel suo protagonista Pavel “Pasha” Talankin, un insegnante e videomaker di una piccola città, non un eroe ma un uomo che si osserva, consapevole della propria paura e tuttavia deciso a continuare a testimoniare l'inquietante metamorfosi scolastica. La telecamera diventa difesa e confessione, il modo più onesto per restare fedele a se stesso, anche quando lo espone al rischio. Attraversa aule, corridoi, saggi scolastici e parate, mentre da una dichiarazione filmata di Putin emerge una frase destinata a riassumerne la nuova logica pedagogica: “Non si vince la guerra, si insegna a vincere”, formula che funzionari e insegnanti adottano senza mai metterla in discussione. La scuola diventa un laboratorio di patriottismo militare, in cui soldati e istruttori entrano nelle classi, mettono in mano ai ragazzi armi e granate, organizzano esercitazioni e competizioni. Molte di quelle armi arrivano dalla seconda guerra mondiale, offerte come reliquie da toccare e imitare, mentre la familiarità con la guerra si trasforma in lezione e in esercizio di appartenenza.
In questo disegno Putin si rifà a un’immagine illusoria dell’Unione Sovietica, una nostalgia costruita più sul mito che sulla memoria, visto che il fine non è certo il comunismo, come appunta lo stesso Talankin. Nei vecchi filmati celebrativi di quel periodo, come quelli rimontati in Revue (2008) dal regista ucraino Sergei Loznitsa, si può osservare una fede autentica del popolo sovietico, soprattutto nelle scuole quando i bambini recitavano le poesie su Lenin, un’adesione che passa anche dagli occhi luminosi e dai corpi entusiasti, per quanto oggi se ne riconosca la funzione di culto della personalità. I bambini di Putin invece non credono nemmeno alla propaganda che recitano, si limitano a leggere le battute da un pezzetto di carta, come in una recita mal provata, ed è proprio questa distanza tra le parole e lo sconcerto dei loro volti a rendere lo spettacolo insieme ridicolo e disturbante.
Talankin continua a filmare anche quando il lavoro lo obbliga a montare video celebrativi, sfilate e commemorazioni, e in un momento cruciale confessa di sentirsi parte della macchina propagandistica.
Quando è costretto a lasciare la Russia, l’esilio assume la forma di un paradosso doloroso, perché l’unico modo per non tradire il proprio Paese sembra diventare l’uscita di scena. Eppure dentro questa rassegnazione continua a covare un gesto di libertà: girare il film significa rivendicare la verità, sottrarsi al silenzio e combattere la propaganda.
La regia di David Borenstein accompagna Talankin con pudore e fermezza, tiene lo sguardo vicino al suo e non impone un giudizio, costruisce piuttosto uno spazio intimo in cui le emozioni si esprimono liberamente. Il passaggio al Sundance 2025 ha dato visibilità a questa piccola resistenza nata tra archivi scolastici e hard disk clandestini, lasciando in eredità una domanda che pesa più di qualsiasi risposta: che cosa significa educare quando il potere spinge verso una militarizzazione dell’infanzia?

lunedì 17 novembre 2025

Welcome to Chechnya (2020)

Ci sono film che non si limitano a documentare la realtà, ma la affrontano come un campo di battaglia. Welcome to Chechnya di David France è uno di questi. È un documentario necessario, che squarcia il silenzio attorno alla persecuzione delle persone LGBT in Cecenia, una tragedia di cui l’Occidente sembra ricordarsi solo per brevi e distratte parentesi mediatiche. La repressione fu già denunciata da Amnesty International nel 2017, quando oltre cento uomini ritenuti omosessuali furono rapiti, torturati e in alcuni casi uccisi, costretti a rivelare i nomi di altre persone Lgbti. E non si è fermata lì, alla fine del 2018 una nuova ondata di violenze ha portato alla detenzione di circa 40 persone in un edificio governativo ad Argun, sottoposte a torture e maltrattamenti, con almeno due morti accertati. In alcuni casi, le autorità avrebbero perfino distrutto i passaporti, rendendo quasi impossibile la fuga. 
Il documentario, girato in clandestinità, con camere nascoste e telefoni cellulari, segue un gruppo di attivisti che mette a rischio la propria vita per aiutare uomini e donne a fuggire dal paese. Dentro questa rete di salvataggio emerge l’incredibile lavoro della Russian LGBT Network, che nell’arco di due anni è riuscita a portare in salvo più di centocinquanta persone. Durante la visione, assistiamo a due luoghi complementari di questo percorso, da un lato un rifugio dove i fuggiaschi possono sostarsi, sostenersi a vicenda e ricevere aiuto psicologico, dall’altro una serie di appartamenti di transito predisposti dagli attivisti per periodi di isolamento e preparazione all’espatrio (nuovi documenti, protocolli di sicurezza, contatti con i paesi di accoglienza). Il regista per filmare senza destare sospetti ha dovuto fingersi turista, portando con sé due telefoni, uno per le riprese e un altro pieno di foto “da vacanza” da mostrare alle autorità in caso di controlli.
L’espediente tecnico più innovativo del documentario è l’uso del deepfake, che ha permesso di proteggere l’identità delle vittime sostituendo i loro volti con quelli di altri volontari. Questa tecnologia digitale nata per ingannare l’identità diventa, qui, il suo contrario: non falsifica la realtà, ma la preserva, trasformandosi in uno scudo umano, un atto di solidarietà che diventa anche una forma di resistenza.
Uno degli aspetti più sconvolgenti del documentario è la presenza dei “video trofeo”, girati dagli stessi carnefici durante la caccia ai gay e che gli attivisti intercettano quotidianamente. In quelle immagini assistiamo a pestaggi, torture e anche uno stupro, probabilmente il momento più insostenibile del film. 
Qui emerge un paradosso che agghiaccia: chi dichiara di odiare i gay sceglie proprio l’atto sessuale per punirli. Non è desiderio, ma l’uso del sesso come strumento di annientamento, perciò l’omosessualità dell’atto non contraddice l’omofobia, piuttosto ne rivela la sua natura più brutale, come potere che violenta l’intimità per riaffermare, con la forza, i confini dell’ordine patriarcale.
Il leader ceceno Ramzan Kadyrov appare in un’intervista, ridendo e grattandosi grottescamente la barba quando gli viene chiesto delle purghe. “Non abbiamo gay”, dichiara, “Se ce ne sono, per purificare il nostro sangue, prendeteli. Mandateli in Canada” Il Cremlino, dal canto suo, nega tutto, definendo le accuse “infondate”. Ma le prove sono lì, filmate, raccontate, vissute sulla pelle dei sopravvissuti. 
L’unico sopravvissuto ad avere il coraggio di uscire dall’anonimato è Maksim Lapunovche nel finale compie un gesto radicale: rimuove il deepfake che lo proteggeva e restituisce allo spettatore la sua identità, trasformando il suo volto non più nascosto in un atto di denuncia aperto. È anche l’unica vittima che ha sporto denuncia ufficiale alle autorità russe, ma l’inchiesta penale preliminare sulle sue accuse è stata chiusa, senza che i responsabili delle violenze venissero portati davanti a un tribunale. 
Il film non offre conforto e il destino degli altri fuggitivi rimane incerto. David Isteev, uno degli attivisti più presenti nel documentario, confessa verso la fine di sentirsi esausto, di non avere più fiducia nella giustizia. “Questa storia ha bisogno di una conclusione degna,” dice, “e questa è ancora molto lontana.” 
David France, dopo il successo per la regia di The Death and Life of Marsha P. Johnson e la produzione di Queendom, si impone come uno dei più grandi documentaristi queer del nostro tempo.


martedì 7 ottobre 2025

Free Palestine! 🇵🇸


«Voglio essere molto chiara. Davanti ai nostri occhi si sta consumando un genocidio. Un genocidio trasmesso in diretta streaming su tutti i nostri telefoni. Nessuno ha il privilegio di dire di non essere consapevole di ciò che sta accadendo. Nessuno in futuro potrà dire che non lo sapevamo. Secondo il diritto internazionale, Gli Stati hanno l’obbligo giuridico di agire per prevenire e fermare un genocidio. Questo significa porre fine alla complicità, esercitare una pressione reale e smettere di fornire armi. Ma non sta succedendo nulla di tutto questo. I nostri governi non stanno facendo nemmeno il minimo indispensabile.
Le nostre organizzazioni internazionali stanno tradendo i palestinesi. Non sono neppure in grado di impedire i peggiori crimini di guerra. sistemi internazionali stanno tradendo i palestinesi. E non capirò mai come gli esseri umani possano essere così malvagi, da voler deliberatamente far morire di fame milioni di persone intrappolate in un assedio illegale, che segue decenni… e decenni di oppressione soffocante, di apartheid e di occupazione. [...] Il nostro obiettivo con la Global Sumud Flotilla è stato quello di intervenire quando i nostri governi non hanno adempiuto ai loro obblighi legali. I nostri governi parlano di garantire i diritti umani e dell’importanza di far arrivare aiuti umanitari a Gaza, ma non fanno la loro parte e non fanno nemmeno il minimo indispensabile, per garantire la sicurezza di questa missione. Questa missione non dovrebbe esistere. E questo è una vergogna. Quello della Global Sumud Flotilla è stato il più grande tentativo di rompere l’assedio illegale e disumano di Israele via mare. È una storia di solidarietà internazionale globale di persone che si sono fatte avanti, quando i nostri governi non sono riusciti a farlo. I miei leader, i cosiddetti leader che dovrebbero rappresentarmi e che continuano ad alimentare un genocidio, morte e distruzione, non mi rappresentano. È una vergogna che questa missione sia dovuta esistere… è una vergogna. E potrei parlare a lungo, molto a lungo dei nostri maltrattamenti e degli abusi subiti durante la nostra prigionia, credetemi, ma non è questa la notizia. La notizia è che Israele, mentre continuava a peggiorare e a intensificare il suo genocidio e la sua distruzione di massa - con intento genocida, tentando di cancellare un’intera popolazione, un’intera nazione davanti ai nostri occhi - ha violato ancora una volta il diritto internazionale impedendo agli aiuti umanitari di arrivare a Gaza, mentre la gente muore di fame. E vogliamo anche sottolineare che non abbiamo bisogno solo di aiuti umanitari per entrare a Gaza. Dobbiamo porre fine all’assedio. Dobbiamo porre fine all’oppressione. Questa azione è stata una sfida al nostro solito modo di fare estremamente violento, che impedisce che questi crimini di guerra si verifichino. Ed è di questo che parla questa notizia.
Non possiamo distogliere lo sguardo da Gaza e da tutti i luoghi del mondo in cui si soffre mentre il sistema continua a funzionare come se nulla fosse: Congo, Sudan, Afghanistan, Gaza e molti, molti altri. Quello che stiamo facendo è il minimo indispensabile. Questo genocidio e altri genocidi sono resi possibili e alimentati dai nostri governi, dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi d’informazione e dalle nostre aziende. È nostra responsabilità mettere fine a queste complicità. Non siamo eroi. Stiamo solo facendo il minimo indispensabile.
Questo genocidio e altri genocidi sono resi possibili e alimentati dai nostri governi, dalle nostre istituzioni, dai nostri media e dalle nostre aziende. È nostra responsabilità porre fine a questa complicità. […] No, non siamo eroi. No, no… stiamo facendo il minimo indispensabile. Ciò che stiamo facendo non lo è in alcun modo.
Nessuno è obbligato a venire in soccorso del popolo palestinese. Ciò che stiamo facendo è ascoltare e agire in base alle loro richieste affinché le persone di tutto il mondo agiscano, smettano di essere complici, di usare i nostri privilegi e gli strumenti per prendere posizione contro ciò che è in ogni modo ingiustificabile.»
6 ottobre 2025

martedì 18 marzo 2025

Flow - Un mondo da salvare (2024)

In un mondo post-apocalittico dove l’uomo è ormai scomparso, un gatto lotta per sopravvivere a un'inondazione che ha sommerso la sua casa. Costretto a rifugiarsi su una barca, incontra un labrador giocherellone, un capibara pigro, un lemure cleptomane e un serpentario ferito. Questi animali, così diversi eppure accomunati dal tragico destino, intraprendono un lungo viaggio che li porterà a scoprire non solo la forza della sopravvivenza, ma anche il significato più profondo della cooperazione. 
Fin dai primi minuti, lo spettatore viene incantato dalla straordinaria tecnica d’animazione, da un’ambientazione così ricca di dettagli che crea un'atmosfera palpabile, e dai lunghi movimenti di macchina che invitano ad immergersi completamente nella narrazione. Per la realizzazione Gints Zilbalodis, il regista lettone, ha rinunciato al tradizionale storyboard, lavorando direttamente con gli ambienti in 3D, in cui ha posizionato telecamere virtuali e inserito i personaggi, facendoli muovere nell'imponente scenario, quasi come fosse un videogame. “Questo è stato necessario,” ha spiegato, “perché ci sono molte inquadrature lunghe e complicate in cui la telecamera si muove nello spazio, il che sarebbe impossibile da disegnare negli storyboard.” L’animazione di Flow si distingue anche per il suo approccio naturalistico, lontano dall’antropomorfismo tipico dei classici Disney o Pixar. Gli animali non sono figure idealizzate o caratterizzate da tratti umani, ma incarnano comportamenti autentici, come quelli osservabili nella natura. Per ottenere questo livello di realismo, il regista si è valso della collaborazione di un team di animatori suddiviso in tre squadre, operanti in Francia e Belgio. Prima dell’inizio della produzione, gli artisti hanno trascorso una settimana insieme visitando lo zoo e studiando una vasta gamma di riferimenti fotografici e video, in modo da riprodurre fedelmente i movimenti e le interazioni degli animali. Il film, composto da 22 sequenze e 307 inquadrature, è stato completato in sei mesi, con una media di due secondi animati al giorno per ciascun animatore, evidenziando un impegno e una precisione straordinaria. Ma Flow va ben oltre l’eccellenza tecnica: è un’opera che parla di identità, trasformazione e rinascita attraverso la natura stessa. L’assenza dell’uomo – l’artefice della crisi climatica – non è un semplice sfondo, bensì una scelta narrativa potente che critica la visione antropocentrica con cui l’uomo ha sempre considerato la natura e gli animali. La stessa barca, che diventa rifugio per gli animali, ricorda l’Arca di Noè, ma in una versione senza umani, che diventa il simbolo di un salvataggio non più legato all’intervento divino o all’umanità, ma all’unità e all’armonia che possono nascere solo dalla convivenza e dalla cooperazione tra specie. In questo contesto, la cooperazione che si sviluppa tra il nuovo gruppo di animali, non si configura come un semplice mutualismo, bensì come una forma più profonda di cooperazione solidale, un nuovo paradigma in un mondo in cui i continui cambiamenti climatici mettono costantemente in pericolo l'ordine naturale.


Un aspetto interessante del film è la presenza di uno specchio che possiede gelosamente il lemure nella barca: inizialmente, gli altri naufraghi vi si riflettono con curiosità senza riconoscersi, ma nel finale, quando il gruppo si riunisce, riescono a vedersi chiaramente specchiandosi nell'acqua. Essi sviluppano un’"identità collettiva" che trascende la specie, suggerendo che la consapevolezza di sé e la costruzione dell’identità non siano processi individuali, ma emergano attraverso la cooperazione, l’integrazione e l’empatia verso l’altro.
Una delle scene più belle del film è quella in cui l’acqua si eleva in un "vortice ascensionale", sollevando sia il gatto che il serpentario da terra. In seguito, il serpentario vola in alto verso una luce nel cielo, fino a  scomparire definitivamente. Questo fenomeno naturale, arricchito dal simbolismo visivo, trasforma l’ascensione in un’esperienza mistica e sacrificale. Dopo lo straordinario evento, infatti, l’acqua si ritira, ripristinando l’equilibrio nel mondo. Parallelamente, anche la balena (dall'aspetto "mutante") assume un ruolo enigmatico e salvifico nel corso del film: durante l'inondazione, il gatto la scorge per la prima volta e, subito dopo, compare una barca destinata a salvarlo. Successivamente, la stessa balena gli impedirà l’annegamento raccogliendolo sulla sua testa e riportandolo in superficie. Nel finale, essa appare “morta” e priva d’acqua, simbolo del sacrificio e del ritorno all’ordine. Nei titoli di coda, la sua riapparizione nell’oceano – un silenzioso presagio che lascia aperto il dubbio su una possibile nuova inondazione – accentua ulteriormente il suo valore simbolico, intensificando il mistero che avvolge la sua imponente figura.
Da sottolineare, la presenza di una colonna sonora suggestiva, composta dallo stesso regista Zilbalodis insieme a Rihards Zaļupe, che intreccia i suoni naturali con le melodie elettroniche, guidando lo spettatore in un percorso sensoriale che amplifica ogni emozione e attimo di tensione. Ottoni, marimba e percussioni scandiscono il ritmo del viaggio, facendo da eco alle immagini che si susseguono sullo schermo, in un’armoniosa sinfonia che racconta una storia senza dialoghi ma densa di significati. 
Flow è uno dei più grandi film d'animazione prodotti negli ultimi trent'anni, come l'altrettanto meraviglioso La Tartaruga Rossa di Michaël Dudok de Wit, si distingue per una potenza visiva e musicale che lo rende un esempio eccezionale di narrazione senza parole. La sua visione sfida lo spettatore a ripensare il rapporto con la natura, invitandolo a considerare la possibilità che, senza la presenza distruttiva dell’uomo, la vita possa esprimere forme di solidarietà e armonia fino ad ora inimmaginabili. Si è aggiudicato meritatamente il Premio Oscar come Miglior film d'animazione del 2025. 


Il film è disponibile per il noleggio e l'acquisto digitale su Rakuten TV.

lunedì 27 gennaio 2025

Ryś (1982)

Conosciuto anche con il titolo internazionale The Lynx, è un film diretto dal regista polacco Stanislaw Rózewicz, basato sul racconto "Chiesa di Skaryszew" di Jarosław Iwaszkiewicz (il noto autore di Madre Giovanna degli angeli, che ispirò anche il film di Jerzy Kawalerowicz). La trama è la seguente: un giovane partigiano di nome Ryś (Piotr Bajor) confessa a Padre Konrad (Jerzy Radziwiłowicz) di dover uccidere un traditore senza potersi sottrarre alla missione,  pena la morte inflitta dall’organizzazione partigiana, chiedendo al contempo l’assoluzione dal peccato dell’omicidio. Il giovane prete rimane profondamente turbato dalla confessione e dalla strana richiesta, sopratutto quando scopre che il presunto traditore è il carradore Alojz (Franciszek Pieczka), un uomo da sempre considerato onesto nel paese e protettore di una bambina ebrea. Convinto che si tratti di un terribile errore, Padre Konrad implora Ryś di ritardare la sentenza per avere il tempo di indagare. Ryś acconsente, ma solo per un giorno.
In tempi di guerra uccidere diventa una necessità inevitabile, come può questa cruda realtà conciliarsi con la morale cristiana? Attraverso Padre Konrad viviamo questo angosciante quesito esistenziale che lo tormenta incessantemente. La figura di Ryś comincia a tramutarsi nella sua mente da un'anima da amare e redimere dal peccato, a una tentazione irresistibile, una figura affascinante e demoniaca che sconvolge il suo equilibrio interiore. Colpisce la scelta del regista di rappresentare questi turbamenti attraverso delle enigmatiche scene in bianco e nero, che non si limitano a essere visioni mistiche, ma il frutto del suo immaginario e dei suoi desideri inespressi. L'impronta minimalista del film, fedele allo sguardo trascendente di Robert Bresson, schiude sottotesti: la dinamica tra i due lascia anche spazio a una lettura queer, sopratutto quando Padre Konrad, al secondo incontro con Ryś, dichiarerà di essere disposto, per amore, a prendersi carico della sua missione omicida affinché la sua anima venga risparmiata dalla dannazione eterna. Ma quando Padre Konrad realizzerà che per il carradore Alojz, dovrà essere ciò che Caino fu per Abele, sarà travolto da nuovi dubbi.
Le domande non cesseranno nel finale. Padre Konrad, durante una visita al cimitero, scoprirà una lapide con il nome di un certo "Ryszard Lambert" morto a 16 anni durante la guerra, non sarà forse lo stesso Ryś, ora divenuto uno spettro dannato in cerca di vendetta?
La Polonia rappresentata nel film è desolante, il paese è quasi deserto, la gente si nasconde dai nazisti, vive nella paura e solo pochi sanno ancora come agire nel modo giusto. Anche Alojz, pur avendo messo in salvo una bambina ebrea, ammette a Padre Konrad che in passato avrebbe potuto fare di più per gli ebrei. Ma allora, chi tradisce chi? Cosa significa davvero tradire?
Stanislaw Rózewicz si addentra in una zona di grigio senza scampo, priva di risposte semplici, perché in tempi di guerra le fazioni in bianco e nero finiscono per diventare una bugia rassicurante, una coperta che nasconde l’orrore. Alojz forse ha tradito qualcuno, ma è secondario, quello che importa al regista è come l'assenza del perdono e della fede distrugga l'umanità, in un via vai incessante e perpetuo di spettri in cerca di sangue da versare, di altre vite da spezzare. Tutti un giorno potremmo incontrare Ryś e cedere alla sua trappola. Forse molti l'hanno già fatto. Come si afferma nell'inquietante finale, si pecca anche con l'intenzione. Chi non l'ha mai fatto? Essere "cristiani" non è mai stato così difficile, come in questo film.
Magistrale è la fotografia del film curata da Jerzy Wójcik, fedele collaboratore del regista, che con le sue tonalità grigio-azzurre evoca una profonda malinconia, mentre le ombre studiate nei primi piani intensificano l'ambiguità, sopratutto nelle scene degli incontri tra Padre Konrad e Ryś. Da sottolineare anche la scelta azzeccata dei due interpreti: Jerzy Radziwiłowicz, con il suo volto genuino e denso di umanità, e Piotr Bajor, con il suo sguardo glaciale e tenebroso, entrambi perfettamente calati nei rispettivi ruoli. Le musiche d'organo di Lucjan Kaszycki creano atmosfere gotiche, tra i temi c'è spesso l'uso dell'Adagio in Sol minore di Tommaso Albinoni, che è un brano che fu ricostruito da Remo Giazotto proprio durante la fine della seconda guerra mondiale.
Guardando "Ryś" è come se "Il diario di un curato di campagna" di Robert Bresson e "Il quinto sigillo" di Zoltán Fábri si incontrassero - e scontrassero - nello stesso film. Un inquietante capolavoro, da riscoprire.

Il film è rimasto inedito in Italia, ma ho realizzato una traduzione dei sottotitoli destinati alla versione restaurata del film, potete scaricarli su questa pagina.


Post più popolari