Ci sono film che non si limitano a documentare la realtà, ma la affrontano come un campo di battaglia. Welcome to Chechnya di David France è uno di questi. È un documentario necessario, che squarcia il silenzio attorno alla persecuzione delle persone LGBT in Cecenia, una tragedia di cui l’Occidente sembra ricordarsi solo per brevi e distratte parentesi mediatiche. La repressione fu già denunciata da Amnesty International nel 2017, quando oltre cento uomini ritenuti omosessuali furono rapiti, torturati e in alcuni casi uccisi, costretti a rivelare i nomi di altre persone Lgbti. E non si è fermata lì, alla fine del 2018 una nuova ondata di violenze ha portato alla detenzione di circa 40 persone in un edificio governativo ad Argun, sottoposte a torture e maltrattamenti, con almeno due morti accertati. In alcuni casi, le autorità avrebbero perfino distrutto i passaporti, rendendo quasi impossibile la fuga.
Il documentario, girato in clandestinità, con camere nascoste e telefoni cellulari, segue un gruppo di attivisti che mette a rischio la propria vita per aiutare uomini e donne a fuggire dal paese. Dentro questa rete di salvataggio emerge l’incredibile lavoro della Russian LGBT Network, che nell’arco di due anni è riuscita a portare in salvo più di centocinquanta persone. Durante la visione, assistiamo a due luoghi complementari di questo percorso, da un lato un rifugio dove i fuggiaschi possono sostarsi, sostenersi a vicenda e ricevere aiuto psicologico, dall’altro una serie di appartamenti di transito predisposti dagli attivisti per periodi di isolamento e preparazione all’espatrio (nuovi documenti, protocolli di sicurezza, contatti con i paesi di accoglienza). Il regista per filmare senza destare sospetti ha dovuto fingersi turista, portando con sé due telefoni, uno per le riprese e un altro pieno di foto “da vacanza” da mostrare alle autorità in caso di controlli.
L’espediente tecnico più innovativo del documentario è l’uso del deepfake, che ha permesso di proteggere l’identità delle vittime sostituendo i loro volti con quelli di altri volontari. Questa tecnologia digitale nata per ingannare l’identità diventa, qui, il suo contrario: non falsifica la realtà, ma la preserva, trasformandosi in uno scudo umano, un atto di solidarietà che diventa anche una forma di resistenza.
Uno degli aspetti più sconvolgenti del documentario è la presenza dei “video trofeo”, girati dagli stessi carnefici durante la caccia ai gay e che gli attivisti intercettano quotidianamente. In quelle immagini assistiamo a pestaggi, torture e anche uno stupro, probabilmente il momento più insostenibile del film.
Qui emerge un paradosso che agghiaccia: chi dichiara di odiare i gay sceglie proprio l’atto sessuale per punirli. Non è desiderio, ma l’uso del sesso come strumento di annientamento, perciò l’omosessualità dell’atto non contraddice l’omofobia, piuttosto ne rivela la sua natura più brutale, come potere che violenta l’intimità per riaffermare, con la forza, i confini dell’ordine patriarcale.
Il leader ceceno Ramzan Kadyrov appare in un’intervista, ridendo e grattandosi grottescamente la barba quando gli viene chiesto delle purghe. “Non abbiamo gay. Se ce ne sono”, dichiara, “per purificare il nostro sangue; se sono qui, prendeteli. Mandateli in Canada” Il Cremlino, dal canto suo, nega tutto, definendo le accuse “infondate”. Ma le prove sono lì, filmate, raccontate, vissute sulla pelle dei sopravvissuti.
L’unico sopravvissuto ad avere il coraggio di uscire dall’anonimato è Maksim Lapunov, che nel finale compie un gesto radicale: rimuove il deepfake che lo proteggeva e restituisce allo spettatore la sua identità, trasformando il suo volto non più nascosto in un atto di denuncia aperto. È anche l’unica vittima che ha sporto denuncia ufficiale alle autorità russe, ma l’inchiesta penale preliminare sulle sue accuse è stata chiusa, senza che i responsabili delle violenze venissero portati davanti a un tribunale.
Il film non offre conforto e il destino degli altri fuggitivi rimane incerto. David Isteev, uno degli attivisti più presenti nel documentario, confessa verso la fine di sentirsi esausto, di non avere più fiducia nella giustizia. “Questa storia ha bisogno di una conclusione degna,” dice, “e questa è ancora molto lontana.”
David France, dopo il successo per la regia di The Death and Life of Marsha P. Johnson e la produzione di Queendom, si impone come uno dei più grandi documentaristi queer del nostro tempo.
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