sabato 19 febbraio 2022

Le tre morti di Marisela Escobedo (2020)

L'antropologa e sociologa Marcela Lagarde è stata una delle prime donne messicane a coniare il termine femminicidio per descrivere i molteplici omicidi di donne avvenute nella zona di Ciudad Juárez durante gli anni '90. Il termine differisce da quello di femmicidio (dall'inglese femicide) introdotto nel 1992 dalla criminologa femminista Diana H. Russell,  per descrivere quegli omicidi di donne da parte di uomini, avvenuti per il fatto di essere donne. Per Lagarde, la parola femminicidio ha un significato più ampio che definisce “la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l'impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all'insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all'esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.  
Il documentario di Carlos Pérez Osorio sembra aver interiorizzato pienamente il significato di questa forma di violenza pesantemente viva nella storia del suo Paese, restituendoci quello che è a tutti gli effetti, uno dei più grandi film sul femminicidio che siano mai stati realizzati. Il documentario racconta un fatto di cronaca nera avvenuto sempre nella nota Juárez, ma nel 2008, quando scompare la sedicenne Rubí Frayre sposata con il trentenne Sergio Barraza e con il quale ha avuto anche una figlia. Marisela Escobedo, la madre di Rubí, delusa dalle inconcludenti ricerche della polizia si è attivata a fare di tutto per capire dove sia finita la figlia, persino ad offrire ricompense per ottenere informazioni, ed è così che è riuscita a scoprire la terribile verità: Rubì è stata assassinata da Sergio e il suo fratello, dopo l'omicidio il suo corpo è stato bruciato e seppellito in una discarica. Nel 2010, Sergio in tribunale chiede perdono a Marisela, ammettendo indirettamente la sua colpevolezza davanti ai giudici, ma incredibilmente riceve la totale assoluzione dalla Corte provocando lo shock della famiglia Escobedo e gran parte dell'opinione pubblica, la registrazione video dell'inquietante verdetto è probabilmente il momento più disturbante del documentario. Marisela, nonostante il trauma e la rabbia verso quell'Istituzione che dovrebbe rappresentare la giustizia e che ha simbolicamente ucciso sua figlia una seconda volta, non demorde,  chiede che il caso venga riesaminato, riuscendo ad ottenere una nuova sentenza da un tribunale di circoscrizione che ribalta la situazione, ma nel frattempo Sergio Barraza fugge ai ripetuti arresti e comincia ad avere il sostegno delle più importanti organizzazioni criminali narcotrafficanti del Messico.
Il regista ha fatto una selezione estremamente accurata del materiale di repertorio concesso dal figlio di Marisela, dai filmati privati a quelli delle proteste e dei processi, permettendo al documentario di essere pregno di un crudo realismo. L'efficace lavoro del montaggio, che decide fin dal principio di prediligere il punto di vista di Marisela utilizzando le sue dichiarazioni registrate, ci permette di entrare completamente nel suo dramma, nonostante la sua assenza fisica tra gli intervistati dal regista. Con lei discendiamo in un profondo inferno, dove possiamo percepire tutta l'oppressione, il machismo e la violenza del potere patriarcale che è ramificato nel Messico. Un potere che umilia la giustizia dirottando le prove, falsificando la verità e partecipando, con il suo silenzio, all'annientamento delle donne e conseguentemente di tutti i cittadini coinvolti nella ricerca della giustizia, come un'inquietante effetto domino. 
Il titolo del film "Le tre morti di Marisela Escobedo" appare allora chiaro alla conclusione del film: dopo il femminicidio della figlia e quello simbolico della stessa con la prima sentenza della Corte, il terzo è quello della madre, la donna generatrice dell'altra donna. La violenza è sistemica. Nei titoli di coda apprendiamo che ogni giorno in Messico mediamente vengono uccise 10 donne e il 97% dei femminicidi rimangono impuniti. Come dichiarò profeticamente Marisela di fronte al Palazzo del Governo del Chihuahua «Non ho intenzione di nascondermi. Se verranno ad assassinarmi, dovranno venire ad assassinarmi qui, per la vergogna del Governo», quella vergogna ora copre un'intero Paese. 
Nonostante la mortificante impotenza e il dolore lancinante che lascia il documentario, è la straordinaria testimonianza di come un singolo essere umano su questo pianeta è capace di fare la differenza, con le sue sole forze può attuare un grande cambiamento nella coscienza collettiva. Marisela l'ha fatto, con il suo coraggio e la sua determinazione, spogliandosi di tutto per ottenere giustizia e nel verso senso della parola come accade in una delle sue proteste dove appare senza vestiti, coperta solo dalle fotografie della figlia incollate sul suo corpo nudo, marciando per le strade, tra la gente comune, toccando il cuore di un popolo intero. «Se mia madre mancava dire qualcosa, l'avrebbe detto con questo documentario» ha dichiarato il figlio di Marisela, perciò la sua visione diventa quanto mai necessaria per acquisire maggiore consapevolezza su una tematica oggi spesso narrata e dibattuta dai media, ma raramente rappresentata con la giusta durezza e dignità.
Il documentario si conclude potentemente con la canzone "Canción Sin Miedo" dell'artista messicana Vivir Quintana, dedicata proprio a Marisela. Un duro colpo al cuore, necessario.


Il documentario può essere visionato in streaming su Netflix.

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